mercoledì 20 giugno 2012

Quel giovedì del 58



Quel giovedì del 58
racconto vincitore del premio letterario Sauro Spada 2011

Era stanco Primo, veniva giù con un carico di legna da Viamaggio, lassù sul passo c’era il sole, i boschi di querce, con le foglie tutte gialle, parevano d’oro, il cielo blu tirava nel violetto, si stava bene con quell’aria tiepida che ti avvolgeva come una coperta. Ma, a mano a mano che scendeva, l’aria si faveca più rigida, il sole si nascondeva nel grigio. Giù, giù, in tutte quelle curve col ventisei, bisognava stare attenti, i freni erano quelli, il carico un bel po’ di più e nella valle, in mezzo alla nebbiolina, l’aspettava quasi di sicuro quell’antipatico del maresciallo di Novafeltria; con quello non si ragionava, non c’era caffè o sigarette che tenessero, ti faceva la multa, pareva godesse a farti la multa quell’accidenti, e così se ne andava quel po’ di guadagno del sovracarico.
Primo aveva voglia di essere a casa, di vedere i suoi due bambini e sua moglie... trentasei anni, ancora bella come a diciotto! Piacevano a Primo le belle donne.
«Bisogna vederla alle tre della notte una donna» diceva sempre «spettinata, senza trucco, solo con quel po’ di biancheria addosso, lì vedi se è bella davvero!»
Era stanco Primo ma contento, a Novafeltria non aveva incontrato nessuno, stava ormai per arrivare ed era venerdì: tutto il sabato e la domenica per riposarsi. L’unica cosa che non andava era quella maledetta nebbia, a mano a mano che proseguiva s’infittiva, si ammucchiava, sfocava tutto e si faceva fatica a vedere il fosso. Vicino alla fabbrica, prima che cominciassero le case, gli è parso di vedere una figurina bianca, quasi trasparente, che, con un fazzoletto, gli faceva segno di fermarsi. Ha rallentato e le si è fermato a fianco.
«Va a Santarcangelo?» gli ha chiesto ed ha alzato due occhi celesti macchiati di blu che facevano voglia soltanto a guardarli.
«Sì, salga pure» le ha detto Primo che di donne belle se ne intendeva.
Poteva avere sì e bo trent’anni, bella ma non sfacciata, piena di grazia, elegante nel suo vestitino a fiori, con un cappottino blu che tendeva al grigio e quel fazzzoletto stretto tra le mani.
Piaceva a Primo! Aveva un non so chè di leggero che ti faceva star bene solo a guardarla, le voleva parlare, dire qualcosa di intelligente per fare colpo ma non gli veniva niente di buono e, con una così non potevi certo dire delle stupidaggini! Intanto che pensava a cosa, erano arrivati a Santarcangelo, si è fermato vicino alla farmacia di Sgarbi.
«Grazie» gli ha detto nello scendere guardandolo con quegli occhi celesti macchiati di blu.
Le voleva dire “spero di rivederla” ma, ha guardato di qua e di là, non c’era già più, era come sparita d’incanto.
Vicino alla stazione, ha scaricato la legna e poi s’è  avviato verso casa, alla fine d’Ottobre le giornate sono già corte e si fa notte presto. Era contento Primo d’aver finito e di andare a casa dai suoi figli e da sua moglie, in fondo in fondo però, ma proprio in fondo, avvertiva una puntina di dispiacere per non essere riuscito a dir niente. Che figura aveva fatto con quella ragazza!
Stava per scendere dal camion quando ha visto il fazzoletto sul seggiolino. Se lo è rigirato tra le mani, si sentiva ancora il profumo di lei, pulito, fresco, come di violette. L’ha piegato e l’ha messo nel tascone della portiera.
Ha chiesto in giro il giorno dopo, ma nessuno la conosceva, a dir la verità era anche fatica spiegarsi, il nome non lo conosceva; come fai a dire, che era bella, con gli occhi celesti macchiati di blu e un profumo pulito che sapeva di violette? Si mettevano a ridere, ti strizzavano l’occhio, complici di una cosa che non c’era stata.
«Babbo ha detto la mamma che ti devi preparare, fra dieci minuti andiamo al cimitero» gli ha detto la piccola che si era già messa tutta in ghingheri.
Era il giorno dei morti e sono andati via tutti e quattro a fare il giro dei cimiteri. A Ciola, a Poggio e poi Santarcangelo. Un sacco di gente che conosci, due chiacchiere, i fiori al tuo povero babbo, un giro nel camposanto per vedere quelli nuovi...
«Babbo, vieni babbo?»
Ma Primo non rispondeva, era lì, davanti a un mucchio di terra fresca, a guardare quella foto appesa ad una croce di legno. Guardava quegli occhi celesti macchiati di blu, sembrava che ridessero, quel vestitino a fiori, il cappottino blu che tendeva al grigio e quel fazzoletto stretto tra le mani.L’avevano sepolta il giovedì, il giorno prima che salisse sul suo camion...
È rimasto lì per un bel pezzo Primo, con la testa che gli scoppiava, poi ha dato retta a quella bambina che lo chiamava e sono ritornati a casa.
«Ma cos’hai, sei pallido, non parli da due ore, stai poco bene?» gli ha chiesto sua moglie.
Non ha risposto ed è andato a letto.
«Ma guarda che maleducati, lasciano perfino i fazzoletti sulle tombe.» diceva il becchino il giorno dopo intanto che sistemava la tomba di quella ragazza morta alla fabbrica un giovedì di Ottobre del cinquantotto.

domenica 17 giugno 2012

Il mulino Sapignoli


Nel video la voce dell'autore che racconta nel dialetto romagnolo di Poggio Berni.


Il mulino Sapignoli

Tra Verucchio e Torriana si incunea si stringe  si tocca quasi la Valle del  Marecchia. Da qui nasce la fossa che portava una volta vita e lavoro a tutti i mulini che correvano di fianco a lei fino al mare. Nel mese di Maggio a Poggio Berni, la campagna era vestita di grano, le schiene curve delle colline ballavano leggere con la brezza che saliva da marina e un’onda d’oro scendeva morbida quasi a toccare il blu del mare. Quando le spighe, piegate e cariche di promesse, rilucevano di oro antico, il grano era pronto per la mietitura. I covoni, caricati sul carro, erano portati sull’aia dove veniva eretta la bica. Dalla trebbiatrice uscivano paglia, pula e grano. Con la paglia facevano i pagliai, i sacchi di grano venivano trasportati al mulino. Era lì che le grandi macine di pietra, mosse dalla forza potente dell’acqua, schiacciavano lentamente i chicchi, trasformandoli in soffice e bianca farina.
Pitrìn sempre allegro, Primo sempre burbero, erano i due fratelli che mandavano avanti il mulino Sapignoli, e prima il loro babbo, dopo il fratello Michele. Io gli capitavo spesso tra i piedi “Rino spostati da quella macina che ti fai male!” brontolava Primo.
“Vai via da quel sacco che ti sporchi tutto” mi diceva ridendo Pitrìn “dopo la tua mamma ce le dà a tutti e due!”
Me li ricordo bianchi, tutti bianchi, dalle scarpe alla punta dei capelli, tra le macine che giravano, i sacchi di farina che si riempivano piano piano, il rumore dell’acqua che scendeva con violenza dalla chiusa, l’odore del grano e quella nebbiolina fina fina che copriva tutto di bianco.


sabato 16 giugno 2012

La Sala Diana

Nel video la voce dell'autore che racconta nel dialetto romagnolo di Poggio Berni.


La Sala Diana

Nel prato, di fianco a casa mia, avevano costruito la "Sala Diana" e tutti i sabati sera e la domenica c'era il cinema. Veniva un sacco di gente da tutte le parti.
- Mettiamo su un posteggio per le biciclette? - dice mia mamma.
Eravamo vicini, avevamo una bella aia che ne poteva contenerne un sacco... abbiamo provato.
Il sabato sera io mi mettevo sulla strada e quando vedevo avvicinarsi un lume di bicicletta, aspettavo che mi fosse vicino poi gridavo:
- Volete posteggiare la bicicletta? Costa dieci lire! - Qualcuno si fermava e, a fine serata, contavamo due, trecento lire.
- Se ne fermano pochi mamma!
- Ci vorrebbe un'insegna fuori con la luce, così vedono e si fermano da soli.
- Si può fare con una scatola da scarpe.
Mia mamma ha tagliato la scritta "POSTEGGIO" nel coperchio e dentro, ha incollato un foglio di carta velina gialla; il mio babbo ha messo una lampadina nella scatola, ha fermato il coperchio con un po' di nastro isolante e l'ha attaccata al tronco del susino che stava proprio sul cancello.
Che spettacolo la sera!
Si vedeva l'insegna a cinquanta metri di distanza, io non avevo più bisogno di urlare, la gente scendeva e lasciava le biciclette da sola.
La sera che hanno dato "Maria Goretti" ne abbiamo rimediate centocinquanta, millecinquecento lire!
Tutti e tre eravamo sicuri che presto saremmo diventati ricchi.


Il prete di Trebbio

Nel video la voce dell'autore che racconta nel dialetto romagnolo di Poggio Berni.


Il prete di Trebbio
Quando i primi raggi accarezzano il campanile, l’angelino nella punta diventava rosa dalla contentezza e quel biondino sulla quarantina, uscendo dal portone della chiesa, si ferma nel sole a chiudere gli ultimi bottoni della veste nera lunga fino ai piedi.
Scende di corsa gli scalini ripidi del sagrato e, svelto come la polvere, entrava nella stalla, attacca al calesse la cavallina che, contenta come una pasqua di fare due passi, parte tutta allegra per andare a Santarcangelo al mercato.
«Vado nel casiiino!» urla, il venerdì mattina, il prete di Trebbio, alla perpetua affacciata alla finestra del secondo piano a guardare la nuvola di polvere, giù per la stradina bianca, allontanarsi sempre più.
Li vedo passare da casa mia, scivolano leggeri, sopra il colle del Poggio, nel blu slavato del cielo, la coda bianca di lei, le veste nera di lui. Poi, dalla “Mènga”, finito di scendere, la corsa si spegne e la cavallina, con un trotto più tranquillo, arriva a Santarcangelo.  Al mercato il prete fa due spese, una la mette davanti, sotto il seggiolino, l’altra la lascia dietro. Nel ritornare a casa passa dallo Stradone e, prima di attraversare l’Uso si ferma al “Baratàun” da la Jole, la moglie di Campana.
 È brutto Campana: un pennacchio di capelli neri tutti disordinati sopra una testa che pare fatta con l’accetta, due braccia lunghe fino ai ginocchi e due gambine secche che ballano dentro i pantaloni.
È “brutto e scemo” dicono allo Stradone ma, se lo guardi bene negli occhi, ti accorgi che scemo non è, brutto e furbo ma scemo no, lo da ad intendere perchè fa un mestiere, diciamo un po’ speciale, fa il ladro, è il ladro più bravo dello Stradone.
La Jole invece è bella, ma proprio bella, due occhi da gatta che incantano, la bocca da baciare e quella coda di capelli neri che non sta mai ferma... ”Come ha fatto a sposare uno sgorbio così lo sa solo lei” pensa il prete intanto che fa quei due scalini, perchè si incontrano proprio su per le scale quei due, il prete va su, il marito viene giù, si ferma al calesse, prende la seconda spesa e se la porta nella capanna.
«Ma cosa viene a fare il prete tutti i venerdì a casa tua?» gli domandano quegli uomini.
«Viene a confessare la Jole.»
«Ma intanto che la confessa tu vai via?»
«Ma non pretenderete che stia lì ad ascoltare i suoi peccati! » gli risponde Campana con faccia di bronzo.